Sudafrica, oltre l’apartheid

LE RAGIONI NASCOSTE DELLA SEGREGAZIONE RAZZIALE

NELSON MANDELA (copyright John Mathew Smith 2001)

Il Sudafrica è uno Stato culturalmente ed etnicamente vario: in esso si parlano 12 lingue ufficiali fra cui l’inglese e l’afrikaans, evoluzione africana della lingua dei coloni olandesi. Nel 1961, con l’indipendenza dal Regno Unito, la politica dello Stato africano fu una rigida segregazione razziale: l’apartheid (in afrikaans “separazione”) a causa della quale furono costantemente e sistematicamente violati sia i diritti umani che i diritti civili della popolazione nera, da parte del governo. Fra gli eventi più gravi ci fu la carcerazione per 27 anni di Nelson Mandela. Il Sudafrica fu di conseguenza oggetto di sanzioni internazionali, fra cui l’esclusione sportiva del Sudafrica da qualsiasi competizione sportiva internazionale, incluse le Olimpiadi. La situazione si normalizzò con il graduale superamento della segregazione solo agli inizi degli anni ’90 del Novecento.

Le ragioni della segregazione razziale

Contrariamente all’opinione diffusa, la segregazione razziale ha basi molto più pragmatiche che ideologiche. La scoperta di enormi giacimenti di diamanti e oro in Sudafrica determinò la necessità di sfruttamento di queste risorse con l’impiego di manodopera a basso costo. Ma dove reperire manodopera per le miniere? All’interno della comunità nera, ovviamente. E per creare un immenso bacino di manodopera da sfruttare era necessario mantenerla in condizioni di sottomissione economica, psicologica e sociale cioè impedirle qualsiasi forma di sviluppo economico e sociale o, se preferiamo, annullare qualsiasi possibilità alternativa allo sfruttamento. Partendo da questo presupposto furono introdotte norme sempre più discriminanti contro la popolazione nera.

Nelson Mandela

L’applicazione di una politica apertamente razzista, provocò gravi reazioni internazionali e nel 1973 le Nazioni Unite dichiararono l’apartheid un crimine contro l’umanità. Contro l’apartheid si svilupparono movimenti politici fra cui l’African National Congress (ANC) di Nelson Mandela, il principale ma non l’unico. Per i bianchi, ma solo per i bianchi, il regime di segregazione razziale era stato un elemento chiave della crescita economica del Sudafrica, superiore a quella di qualsiasi altro Paese africano e non solo africano. Ma i tempi d’oro erano finiti. Le township, giganteschi assembramenti in cui viveva il serbatoio di manodopera nera, esplosero con rivolte. La repressione fu durissima. Al sangue si aggiunse altro sangue. Così, all’inizio degli anni 90, su pressioni internazionali e dato l’anacronismo del regime di apartheid, il presidente Frederik de Klerk, al governo fino al 1994, intraprese la via della riforma, liberando Nelson Mandela e smantellando il sistema della segregazione razziale. Entrambi ottennero i premio Nober per la pace.

Le elezioni del 1994 e la fine dell’apartheid

Nel 1994 si tennero le prime elezioni democratiche con suffragio esteso a tutte le etnie, in cui venne eletto presidente e leader dell’ANC Nelson Mandela, in carica fino al 1999. Mandela attuò una politica di riconciliazione nazionale, anche in questo caso non solo per ragioni ideologiche ma soprattutto per la necessità di stabilizzare il Paese: senza il contributo dei bianchi – soprattutto sul piano economico – sarebbe stato impossibile rilanciare il Sudafrica. A Mandela era chiaro quanto fosse indispensabile la collaborazione dei bianchi per tenere in piedi l’economia, per evitare fughe di capitali e per non perdere le competenze professionali senza le quali il Paese sarebbe andato alla deriva.

Credit foto: wikimedia commons (foto tagliata e virata in b/n)