Argentina e il nazionalismo populista

DAL DOPOGUERRA AI PRIMI ANNI DEL NUOVO MILLENNIO

Alternativa alla rivoluzione popolare di tipo socialista come quella cubana, si affermò nel dopoguerra un nazionalismo populista che (come la rivoluzione popolare socialista) era antimperialista e dunque anti-americano, ma non legato a ideologie di sinistra, a ideologie anticapitaliste, guerrigliere o rivoluzionarie. Si trattava di un nazionalismo populista, appunto, sensibile alle problematiche della popolazione e dei lavoratori che si affermò in Argentina, Brasile e Messico.

In Argentina nel dopoguerra venne eletto presidente Peron che attuò:

  • interventi sociali
  • solidarietà (ma non cancellazione) fra le classi sociali
  • statalizzazione delle industrie
  • suffragio universale (anche alle donne)
  • assistenza sanitaria e pensionistica.

Era appoggiato non dall’élite del Paese, bensì dalle masse, dai poveri, dai lavoratori. La sua politica, il peronismo, era considerata anche un giustizialismo cioè una miscela di autoritarismo e paternalismo che si opponeva

  • sia all’individualismo liberista occidentale
  • sia al socialismo teso ad abolire le classi sociali.

Nel 1955 un golpe rovesciò il governo di Peron. Seguirono altri golpe che alternavano giunte militari a governi eletti. Nel 1976 con un altro golpe militare prese il potere il generale Videla e instaurò una brutale dittatura militare durante la quale 30.000 oppositori sparirono nel nulla (desaparacidos). I generali al governo dell’Argentina tentarono di coinvolgere il Paese con una mobilitazione nazionalistica occupando nel 1982 le Falkland britanniche. Ne scaturì una guerra navale vinta dalla Gran Bretagna.

Nel 1991 il presidente Carlos Menem impose un tasso di cambio fisso di 1 a 1 tra Peso e Dollaro per fermare l’inflazione e adottò una economia di mercato, smantellando il protezionismo e avviando le privatizzazioni. Ma alla fine degli anni Novanta il debito estero dell’Argentina, la disoccupazione e il malcontento sociale arrivarono a livelli insostenibili. E fu la crisi economica. La diminuita competitività nelle esportazioni (dovuta alla forzata parità del peso con il dollaro), le conseguenti massicce importazioni che danneggiarono l’industria nazionale e provocarono disoccupazione, il deficit pubblico culminò nella crisi economica argentina del 2001, con il default. L’Argentina fu costretta ad ammettere l’impossibilità di far fronte agli impegni economici presi con gli altri Stati (default sulle sue obbligazioni internazionali). L’ancoraggio del peso al dollaro venne abbandonato. E il distacco della moneta argentina dalla parità con quella statunitense, ancoraggio che da tempo non era più realistico, la riportò immediatamente ai suoi valori reali, producendo un grosso deprezzamento della valuta e un conseguente altissimo picco di inflazione. La crisi provocò un totale blocco dell’economia, con un drammatico aumento di disoccupati e di nuovi poveri e un’allarmante instabilità sociale.

Per risanare l’economia fu necessario rilanciare l’industria rendendola competitiva attraverso il contenimento dei salari, e sostenere le entrate dello Stato attraverso l’aumento delle tasse.

Nel 2002 l’economia locale cominciò a stabilizzarsi, nel 2003 fu eletto presidente il peronista Néstor Kirchner che riuscì a ristrutturare il debito in default e a ripianare il debito con il FMI. Fondamentale per la ripresa economica fu il cosiddetto “boom della soia”: la conversione di molte vaste aree agricole alla produzione della soia e le forti esportazioni determinarono una ripresa economica e un flusso di valute straniere, faticose riforme ancora in atto.