di Paolo Stefanato
– La vicenda, al di là di tutto, conferma un assunto banale: nessuno è in grado di prevedere il futuro. E chi ci prova, può incorrere in errori. Umani, naturalmente. La storia ha un inizio: la tarda primavera del 2009, quando l’Organizzazione mondiale della Sanità decretò che l’influenza suina, che si era propagata soprattutto dal Messico, era diventata una pandemia, cioè si era estesa in tutto il mondo. L’allarme coinvolse miliardi di persone e attivò i governi, che s’impegnarono a difendere i propri cittadini con adeguate misure di precauzione. L’Italia si avviò ad acquistare 48 milioni di vaccini, metà dalla casa farmaceutica francese Sanofi, metà dalla svizzera Novartis. Nel corso delle settimane e dei mesi, la diffusione e specialmente la gravità della malattia (poi ribattezzata H1N1, o influenza A, per evitare conseguenze sul commercio della carne di maiale) si rivelarono di una gravità inferiore alle aspettative. Il governo italiano annullò l’ordine a Sanofi. Novartis intanto aveva consegnato 10 milioni di dosi, ma “solo” un milione scarso di italiani vi aveva fatto ricorso. Le altre dosi erano in produzione, il processo non poteva essere fermato, ma il nostro governo non le voleva più: l’intento era quello di risparmiare circa 90 milioni di euro non ancora versati sui 184 previsti dal contratto. Detto per inciso, il vaccino aveva validità per un anno, poi sarebbe scaduto.
Tra le due parti, quell’anno, ci furono colloqui sui quali pesavano, però, anche elementi esterni: da un lato la messa in mobilità, da parte della multinazionale, della forza-vendita vaccini in Italia: “I vaccini hanno margini bassi e si vendono direttamente alle Regioni, la forza vendita non serve” sostenevano i vertici del gruppo. Poi, grazie anche ai vaccini, Novartis aveva presentato un bilancio record per il 2009, dando fiato a chi – e sono tanti nel mondo – insiste a dire che i rischi dell’influenza sono stati enfatizzati per favorire le case farmaceutiche, mettendo sotto accusa addirittura l’Oms. Sui milioni di dosi ordinate dall’Italia e non ritirate, il numero uno della divisione Vaccini e diagnostica della Novartis, Andrin Oswald, si esprimeva con un’immagine efficace: “E’ come per l’assicurazione sull’auto: non è che se non si sono avuti incidenti si chiedono i soldi indietro”.
La fine dell’epidemia di influenza suina, dichiarata in vari Paesi tra i quali Francia e Gran Bretagna, lasciò sul terreno 15.921 morti nel mondo. E contenziosi piuttosto aspri tra case farmaceutiche e governi. Questi ultimi, rimasti con sovrappiù di vacini a magazzino dopo aver fatto a gara per accapparrarsene, cercarono di uscirne dignitosamente: per esempio, vendendo il surplus a Paesi più colpiti o più poveri; il Messico, per esempio, Paese da cui si è propagata la malattia e nel quale è stato registrato il maggior numero di decessi. La Germania ricontrattò invece il suo ordine: su 50 milioni di dosi, ordinate alla Gsk, ne acquistò soltanto 35 milioni, il 70%, con un risparmio di circa 133 milioni di euro.
Ma che cos’è accaduto? Chi ha sbagliato? Si è ecceduto in pessimismo, con tutti i costi che ne conseguono? Ha funzionato la profilassi su scala mondiale? Il virus si è mostrato meno aggressivo? “Facile dire che le autorità sono vendute, che le aziende sono ladre, che i giornalisti scrivono fesserie” osservò all’epoca Fabrizio Pregliasco, virlogo dell’Università di Milano ed esperto in epidemie. “A posteriori tutti sono capaci di accusare di eccessivo allarmismo: invece possiamo soltanto dire che ci è andata bene”. Insomma, la malattia è stata meno devastante e le previsioni non ci hanno azzeccato. È un po’ come costruire case antisismiche senza che poi si registrino scosse: nessuno rimpiange il maggior costo. “La verità? L’uomo moderno pianifica, e la natura ci frega – ironizza -. Gli scienziati aspettavano l’aviaria, e invece è arrivata la suina. E pensare che l’aviaria, che nella percezione della gente è un caso chiuso da un pezzo, è sempre un problema e sta continuando a mietere vittime tra i volatili, che nelle zone più povere vengono mangiati”. Fatto sta che tutti i Paesi, nel pieno dell’ondata di panico, si precipitarono a ordinare quante più dosi di vaccino possibile, riconoscendo alle case farmaceutiche anche i costi delle assicurazioni contro eventuali class action (che sono un ulteriore rischio, visto che un vaccino, in una percentuale bassa ma esistente, può provocare effetti collaterali indesiderati anche gravi).
Ma come si deve intendere il principio di precauzione, al quale si fa riferimento in qualunque momento si debba affrontare un rischio sanitario, alimentare o ambientale? Come si calcola il bilancio costi-benefici per ottenere il massimo risultato con uno sforzo (economico e psicologico) ragionevole?
Una risposta non c’è, e qualsiasi modello econometrico è influenzato dai parametri che vi vengono inseriti. L’atteggiamento dei governi per la protezione di propri cittadini, si può dire, non è diverso da quello del buon padre di famiglia di fronte a un’avversità: il quale calcola, insieme alle probabilità di un danno, anche i valori in gioco e le risorse a disposizione. Occorre un’analisi razionale, che permetta di calcolare ogni variabile. Valutando i costi preventivi, diretti e indiretti, e i costi successivi, diretti e indiretti. La delicatezza sta nell’equilibrio tra prima e dopo: impossibile da calcolare con certezza. Ma è meglio eccedere in prevenzione, sopportando costi più alti ma creando una forte barriera di difesa al rischio, oppure incrociare le dita e sperare che i costi dell’epidemia non siano così gravi, esponendosi a una paralisi della vita sociale? Il buon senso invita a una sola risposta: meglio prevenire. Da un punto di vista politico – visto che si tratta pur sempre di scelte politiche – ci si può chiedere: meglio sollevare critiche per aver ecceduto in spese preventive, oppure sopportare la valanga di polemiche per i costi di un’epidemia, che non significano soltanto vittime: ma anche crollo dei trasporti e dei servizi pubblici, blocco delle attività e psicosi generale? Anche qui, nessuno avrebbe dubbi nella risposta, almeno se le scelte politiche non fossero sempre sospettate di pressioni e di conflitti d’interesse.
Tutti hanno ancora in mente, per esempio, la Sars, che colpì il mondo partendo dai Paesi asiatici nel 2002-2003. Di morti ne fece soltanto 800 circa, ma paralizzò il traffico aereo, mise in ginocchio le compagnie, fece precipitare il commercio mondiale: costi indiretti devastanti. Nel 2003 l’attivo commerciale italiano crollò dell’80% (complici, a dire il vero, anche la guerra in Irak e il supereuro), e le esportazioni scesero del 5,2%.
Sono proprio questi i calcoli che un governo deve fare. Quanto costa “subire” con difese insufficienti le conseguenze della malattia? Ci rimette l’ammalato, l’azienda, il sistema economico, lo Stato. Ma fare i conti non è facile. “Il vaccino serve a evitare il contagio e il diffondersi della malattia, non a proteggere il singolo – indica Pregliasco -. Le campagne riescono a eleminare la continuità del contagio se l’80% delle persone si vaccina. Va ricordato che il vaccino è una scommessa sul futuro, il cui beneficio non è immediatamente percepibile dal singolo, al contrario di un antidolorifico contro l’emicrania, che invece ha effetto immediato”. E’, in altri termini, un gioco probabilistico.
Chi deve prevenire, deve immaginare i costi diretti della malattia, successivi al contagio: quelli, cioè, da abbattere. Facciamo il caso di un’influenza normale, con 10 milioni di casi. Il costo diretto di un caso (un’aspirina e due giorni a letto) viene calcolato in 50 euro, che moltiplicato per 10 milioni fa 500 milioni. Il costo indiretto si immagina così: se le persone in fascia lavorativa contagiate sono 4,5 milioni, e se di questa un terzo, 1,5 milioni, restano assenti dal lavoro per cinque giorni, le giornate lavorative perse sono 7,5 milioni. Se il valore medio di ciascuna è di 124 euro, si ottiene come risultato 930 milioni di euro, il 66% del costo complessivo, che in totale è di 1,43 miliardi di euro. Ripartiti tra il singolo e la collettività. Ricordiamo che il costo dei vaccini ordinati dal governo per l’infleunza A era di 183 milioni, e che oggi gli italiani colpiti dalla malattia A sono 5 milioni. Ma poi ci sono i costi ulteriori, più difficilmente calcolabili, che si ampliano a cerchi concentrici secondo il progredire di un’epidemia. La chiusura delle scuole, dei supermercati, delle aziende; il crollo dei trasporti e, con esso, dei commerci internazionali. Il calo complessivo dei consumi, il costo del dolore (fisico) e affettivo (dovuto ai decessi). Come si fa a valutare tutto questo; o meglio, con che coscienza un governante può sottovalutare tutto questo?
D’altra parte, gridare “al lupo al lupo” ottiene come risultato che la prossima volta nessuno crederà più agli allarmi, e la sensibilità per il rischio risulterà alterata. Insomma: da qualunque parte la si guardi, la situazione espone a errori. Ma è meglio, forse, pagare un’assicurazione iperprotettiva molto cara e non avere incidenti, piuttosto che ritrovarsi sguarniti in caso di un sinistro grave. O no?